(il tradizionale “Tarallo dell’Immacolata”, in dialetto ” ‘U fcjlatjdd”)
Le festività natalizie iniziavano il 7 dicembre, giorno della vigilia dell’Immacolata Concezione. I fedeli più rigorosi effettuavano un completo digiuno dai pasti mentre le donne preparavano il tipico “Pane dell’Immacolata” o “Pane a tarallo” (in dialetto “‘U fcjlatjdd“). Questo pane, appena sfornato, diventava subito preda dei bambini, i quali non riuscivano a resistere al suo profumo che si sprigionava per tutta la casa. Stessa sorte toccava l’indomani alle cosidette “Pettole” (“‘U pattl“, essenzialmente pezzi di pasta fritta), alle “Cartellate” (“‘U cartddet“, conditi con miele) ed ai “Porcellini” (più famosi come “‘U pjrciddizz“, immersi nel miele o vin cotto o decotto a fichi). Camminare per i vicoli dei Sassi in questi giorni dell’anno significava incrociare gli odori dovuti alla preparazione di queste pietanze, profumi che fuoriuscivano dalle case e si mischiavano per le strade. La tipica scena che si poteva osservare sbirciando nelle case, nei giorni che precedevano il Natale, aveva come protagoniste le donne della famiglia o del vicinato che appoggiavano delicatamente i pezzi di pasta in grosse pentole con all’interno olio a friggere. Una volta fritta, la pasta diventava “Pettole“, “Cartellate” o altro ancora e veniva riposta in una grande bacinella per scolare ed asciugare l’olio.
(rappresentazione della mangiata degli operai)
La vigilia dell’Immacolata era anche conosciuta come “La mangiet d l’opereij“, ovvero la mangiata degli operai. Nelle botteghe, infatti, il maestro (“‘U mast“) usava ringraziare il personale offrendo la cena ai propri operai (“Opereij“) ed apprendisti (“‘U garzin“). La cena solitamente consisteva in un piatto di spaghetti, prodotti nei pastifici cittadini che un tempo abbondavano a Matera, con sugo e baccalà, quest’ultimo considerato il “pesce dei poveri”, il tutto servito solitamente dalla moglie del proprietario (“Migghiar du mast“). La cena si protraeva anche fino a tarda ora, e tra un bicchiere di vino ed una partita a carte (ai giochi più comuni come scopa “La scaup“, briscola”Brusc’l“, e tre sette “Tre sett“) c’era chi ascoltava musica leggera se si possedeva un grammofono. I maestri più benestanti e colti, appassionati di musica classica e di operette, creavano un sottofondo alla cena con dischi raffinati. Poteva capitare di sentire il sottofondo musicale del grammofono camminando nei Sassi all’ora di cena.
L’8 dicembre, giorno in cui i cristiani festeggiano l’Immacolata Concezione, coincideva con l’inizio delle festività natalizie; ciò che accadeva in questo giorno era tutto sommato tipico di tutte le giornate che precedevano il Natale. Solo alcuni negozi potevano permettersi l’esposizione di qualche pupazzetto di argilla, di gesso o di cartapesta, e ancora meno attività esponevano come addobbi le serie di luci intermittenti. L’atmosfera natalizia si avvertiva soprattutto nelle case, dove le mamme e le nonne impastavano in continuazione la farina per fare i dolci: le friselle dolci alle mandorle (“‘U frsedd“), le strazzate (“‘U strazzèt“), le meringhe (“‘U schmjtt“), i taralli salati (“‘U cangèdd“), i biscottini al vino bianco (“Bschttjn“), i biscotti grossi all’uovo ricoperti di zucchero (“‘U vschutt ingjlppet“) ed i pasticcini (“‘U pastccjn“).
(le friselle dolci alle mandorle)
I forni erano affollati a qualunque orario, molto spesso in questo periodo i dipendenti erano chiamati a fare gli straordinari per far fronte alla numerosa richiesta. Si può immaginare la contentezza dei bambini nel vedere giungere dal forno gli aiutanti del fornaio con le prelibatezze ancora fumanti; nella maggior parte delle famiglie, i dolci venivano acquistati per poi essere donati ad altre famiglie più importanti, che spesso avevano offerto aiuto durante una situazione di bisogno; nonostante ciò, i bambini riuscivano comunque a rubare qualche dolciume dai piccoli contenitori in rame (“La ramail“) dove la mamma li custodiva prima di regalarli.
Durante le festività venivano sfoggiati gli abiti migliori, in particolare le ragazze fremevano per indossare vestiti su misura, cuciti dalle sarte o da familiari. Le figlie più piccole erano sicuramente le più penalizzate, queste erano costrette infatti ad indossare gli abiti delle sorelle maggiori, spesso fuori misura; stessa sorte toccava ai maschietti più piccoli. Dalle scarpe al cappotto era tutto un continuo riuso di abiti ed indumenti.