I bambini aspettavano impazienti il regalo che la Befana, in dialetto “La Bbfèn“, gli avrebbe portato. Non si trattava di doni molto costosi, le famiglie non potevano permettersi grosse spese. La maggior parte dei bambini riceveva caramelle e cioccolate, oltre che carbone (naturalmente di cioccolato). I più piccoli riponevano quindi le calze nei pressi del focolare, accanto ad una letterina con la richiesta dei doni.
(il cuci piatti, ‘u conza piott, intento a riparare un piatto)
La cena della vigilia dell’Epifania, secondo tradizione, era abbondante e caratterizzata da nove alimenti (in forma di assaggio) di caratteristiche diverse; in realtà non si trattava propriamente di alimenti, bensì il pasto doveva essere composto da 9 ingredienti. Questo era l’augurio per un nuovo anno prosperoso. I genitori incutevano timore ai propri figli raccontando leggende che riguardavano i cuci-piatti (” ‘U conzapiott“), ovvero coloro che percorrevano vie e vicinati per riparare i piatti rotti degli abitanti dei rioni Sassi: i bambini che mangiavano più di nove alimenti diversi subivano la cucitura della propria come forma di punizione. Stessa sorte veniva annunciata per chi non voleva andare a dormire nell’intento di sorprendere la Befana mentre lasciava i doni. In un contesto di estrema povertà, i primi semplici giocattoli come una palla di gomma per i maschietti e bamboline rudimentali per le ragazzine comparvero a partire dagli anni ’30; per i primi decenni del Novecento la Befana portava in dono, ai più fortunati, frutta secca, una mela, qualche caramella e nulla più.
(la Natività al completo, con l’arrivo dei Re Magi, nel presepe realizzato dall’artista Franco Artese)
I fedeli più rigorosi, allo scoccare della mezzanotte, facevano una piccola processione con i pupi del presepe raffiguranti i Re Magi. Al termine della processione, che spesso interessava tutto l’intero vicinato, i Magi venivano posizionati nel presepio, che diventava così completo. Il mattino dell’Epifania tutti i bambini si riunivano nel vicinato, o per strada, per descrivere agli amici il proprio modesto regalo. Molte volte i genitori, nell’intento di punire i bambini disobbedienti, ritiravano il giocattolo che era stato portato dalla Befana, per poi ripresentarlo l’anno successivo per lo stesso figlio o per uno più piccolo. L’Epifania rappresentava, di fatto, la fine delle festività natalizie, nei giorni successivi il presepe doveva essere “guastato”; in molte famiglie si preferiva mantenerlo intatto fino al giorno 17 gennaio, in cui ricorre Sant’Antonio Abate, data di inizio del carnevale. La “distruzione” del presepe era preceduta dalla consueta processione in casa: il Bambin Gesù veniva posto nelle mani del bambino più piccolo che lo accompagnava per tutte le stanze, mentre la famiglia in coro cantava canzoni di Natale in dialetto materano illuminando il percorso con candele e con i “lampari” dei traini. Al termine della processione, che si protraeva per l’intero vicinato, si rientrava in casa e tutti i presenti baciavano Gesù Bambino, che veniva riposto delicatamente in un contenitore. I rami di pino, usati per addobbare il presepio, venivano trasportati e distribuiti per la propria campagna affinchè potessero propiziare il raccolto, mentre i mandarini, anch’essi usati come abbellimenti, venivano mangiati. Per celebrare la fine delle festività natalizie, i più giovani improvvisavano delle piccole feste, motivo per rimanere per più tempo insieme alle ragazze.
Secondo un’altra tradizione materana (forse ancor più antica rispetto a quella appena descritta) la vera giornata che sancisce la fine delle festività natalizie è la Candelora (o Purificazione di Maria) che ricade il 2 febbraio di ogni anno, a 40 giorni esatti dal Natale. In questa data infatti veniva smontato il presepe, con la tradizionale processione serale del Bambinello per casa (o per il vicinato) con in testa il più piccolo della famiglia; nello stesso giorno i materani si recavano alla chiesa rupestre di San Falcione (in località Murgia Timone) o alla chiesa rupestre della Madonna della Scordata (Murgecchia, nei pressi della chiesa rupestre di Madonna delle Vergini) per la benedizione dei ceri pasquali donati dalle congregazioni di appartenenza (ciascuno rappresentato da un colore, ad esempio rosso vermiglio per quella di Sant’Eustachio, giallo per quella di San Giovanni da Matera, marrone scuro per San Francesco da Paola, infine rosso e verde per i SS. Medici).
(una veduta dei rioni Sassi con la neve)
Il Natale in una tipica famiglia materana era più o meno riconducibile a quanto descritto. Molte persone non avevano neanche il pane per sfamarsi, di conseguenza questo periodo non differiva dagli altri giorni dell’anno. Spesso non si aveva neanche la forza di sperare in un altro anno diverso, per cui si usava dire in segno di rassegnazione “Mò van Natèl, snza dnèr, m lascj ‘u giurnel e m vauchj a chuchuè“, che tradotto vuol dire “Ora viene Natale, sono senza soldi, leggo il giornale e vado a dormire”.