In passato la morte veniva attesa quasi sempre a casa e mai in ospedale. La famiglia si raccoglieva quindi al capezzale e si preparava alla dipartita del proprio caro. Prima dell’exitus veniva chiamato il parroco per l’estrema unzione (o unzione degli infermi). Avvenuto il decesso, i familiari più stretti procedevano alla vestizione della salma, utilizzando un foulard per mantenere il capo dritto e la bocca chiusa ed un altro per unire i piedi. Il defunto veniva adagiato sul letto matrimoniale per ben tre giorni, per poi essere sistemato nella bara solo alcune ore prima della celebrazione del funerale in chiesa. Il periodo dei tre giorni consentiva a tutti i parenti, molto spesso provenienti dalle campagne circostanti, di raggiungere la famiglia ed unirsi alla veglia.
Durante la veglia, accompagnata da lodi, venivano ricordate le qualità e le attitudini al lavoro del caro scomparso. Molto spesso questo arduo compito era svolto dalle “Perfiche”, donne chiamate in queste circostanze appositamente per ricordare, attraverso ripetute cantilene e pianti, la vita del defunto. A mezzanotte la salma veniva lasciata sola, si pensava infatti che allo scoccare della lancetta gli angeli scendessero sulla terra per portare con loro l’anima del morto.
Dopo aver sistemato il corpo nella bara, nella tasca della giacca veniva posto un fazzoletto, sulle gambe un cappello, una coperta ed altri oggetti (come ad esempio il bastone) a cui il defunto era affezionato. In tempi più moderni il fazzoletto nel taschino lasciò spazio ad oggetti più moderni, come dentiere ed occhiali.
(In foto il funerale di Mons. Cavalla, 1954)
Il sacerdote, giunto a casa del morto, procedeva con la benedizione della salma e l’invocazione delle preghiere. Il feretro veniva adagiato sulla carrozza funerea (“La carrez du murt“), trainata solitamente da due cavalli ed accompagnata dai parenti più stretti in ordine di discendenza; nel caso in cui il defunto era di sesso maschile, il corteo aveva in testa i figli maschi, seguiti dalle donne, gli altri parenti, amici e vicini di casa, tutti uniti sottobraccio. Nel caso di sesso femminile, le donne capeggiavano il corteo e successivamente i maschi. In tempi più moderni la carrozza, con i lumi laterali, divenne un’esclusiva delle famiglie benestanti, mentre comunemente veniva usata la “Macchina del morto” (in dialetto “La mochn du murt“), un automobile rigorosamente di colore nero. Una tradizione diffusa soprattutto nei paesi della provincia prevedeva anche la banda funebre nel corteo, un sottofondo musicale che rendeva ancor più triste il contesto. Per i funerali dei membri delle Confraternite, come ad esempio la Confraternita di Gesù Flagellato o di San Francesco di Paola, al corteo funebre prendevano parte tutti i componenti dell’associazione, vestiti per l’occasione con il classico abito lungo bianco con la pettorina ed il copricapo bianco a punta, muniti del proprio stendardo (“ ‘U stannaun“).
In occasioni di lutto i maschi vestivano con particolari di color nero: pezzi di stoffa legati al braccio sinistro della giacca o del cappotto, il cappello e la cravatta; le donne vestivano interamente di color nero, comprese le calze. Questo tipo di abbigliamento luttuoso, in base alla gravità ed al tipo di legame con il defunto, poteva essere mantenuto anche per qualche anno.
Al termine della funzione religiosa, il corteo funebre seguiva il feretro fino all’inizio della salita del vecchio cimitero, via IV Novembre. La carrozza, successivamente l’automobile, si fermava per permettere ai presenti di porgere ai familiari le condiglianze. I parenti più stretti seguivano il defunto a passo lento fin dentro il camposanto, percorrendo il tragitto che immette nel cimitero, ai cui lati sono presenti le edicole vocative della via Crucis.
Dopo il funerale (in alto il video del funerale di Mons. Cavalla, 1954) i parenti più stretti si recavano a casa della famiglia che aveva subito il lutto. Si cenava tutti insieme, generalmente con pasta in brodo di gallina. A seconda dell’età del defunto, la cena veniva preparata dalla comara di battesimo (in dialetto “Chmmèr du Sangiuonn“) o dalla testimone di matrimonio (chiamata anche comara del matrimonio, in materano “Chmmèr d l’anjd“, letteralmente “Comara dell’anello”). La cena a casa del defunto era definita il “Consolo”, “ ‘U cunz“, e veniva ripetuta dopo una settimana dal funerale, questa volta preparata da un altro parente o un vicino di casa. I giorni che seguivano l’ultimo addio, i familiari ricevevano le visite di parenti o conoscenti che non avevano potuto prendere parte al rito funebre.