In un contesto povero come quello dei Sassi di Matera, lavare il bucato (detto in dialetto lisciva, “La ljssij“) era un’operazione alquanto rara. Le abitazioni non erano dotate di acqua corrente, per cui le donne di casa si recavano presso i fontanini per riempire grossi recipienti d’acqua, spesso grandi brocche (“‘U rjzzaul d’ocqu“). Percorrendo le vie dei Sassi capitava spesso di incrociare folti gruppi di donne lavare il bucato allo stricaturo con il sapone, quest’ultimo fatto in casa ed ottenuto dalla posa dell’olio (“L’amarij d l’ughij“). A questa sostanza densa si aggiungeva la soda caustica (“La saud“), in tempi più remoti venivano usati addirittura grassi di origine animale come lo strutto di maiale.
Gli indumenti più sporchi, quelli che necessitavano di un lavaggio più accurato, venivano immersi nell’acqua bollente contenuta in un recipiente più grande (“La tjn” o “La pjl”) in legno, successivamente sostituito da quelli in alluminio o rame. Il tappo sul fondo del tino consentiva di scaricare l’acqua. All’interno del tino veniva versata della cenere sottile (“La cian’r“), filtrata dalla cenere più grossa grazie ad un setaccio. Infine il tino veniva ricoperto da un grande telo per poi essere lasciato tutta la notte. Il mattino seguente le donne risciacquavano il bucato, lo arrotolavano per far scolare l’acqua e lo stendevano (“Spannev’n“) su di una fune, che molto spesso attraversava la via da un lato all’altro, per lasciarlo asciugare al sole (“A cera a saul“).
In tempi più recenti la cenere fu sostituita dalla varechina dilituita, detta in dialetto “La medicina dei panni”, “La mdcjn du ponn“. Questo prodotto innovativo era venduto nelle drogherie e per strada dagli ambulanti che giravano nei Sassi con un tre ruote a pedali. L’utilizzo di tale sostanza migliorò sicuramente il candeggio e permise la riduzione del tempo impiegato per lavare. La nuova sostanza, diluita nell’acqua, dava origine a vapori tossici che aumentarono le intossicazioni, i bronco spasmi e dermatiti da contatto.
La stenditura dei panni sui fili doveva essere eseguita secondo un ordine ben preciso. I fili, come detto, attraversavano la strada da un lato all’altro, ragion per cui non bisognava porre la biancheria più pesante nella parte centrale, per evitare che il filo desse fastidio al passaggio. Nella parte centrale trovava posto la biancheria più leggera: i pantaloni (“‘U cazjn“), le mutande (“‘U cazjnjtt“), le calze (“‘U’ cazitt“), le camicie (“‘U cammjs“) e le sottane (“L ch’nmaziaun“). Agli estremi trovavano posto i capi più lunghi e pesanti, soprattutto le lenzuola (“‘U’ rjnzul“) e le tovaglie (“‘U’ tvoghij“). Spesso nei Sassi il giudizio su una donna o su una famiglia si basava anche sul modo con cui le donne di casa stendevano la biancheria. Una stenditura ordinata delineava un giudizio positivo, la donna quindi molto probabilmente riusciva a mantenere bene la casa. Al contrario, una stenditura disordinata dava giudizi poco gentili nei confronti della donna, che in dialetto materano prendeva l’appellativo di “Famm’n sciascianèt” o “Sciscièt“.
L’ultimo atto che seguiva la pulitura del bucato era la stiratura, che avveniva su di un tavolo (“La tovl“) su cui si stendeva un panno bianco. Il panno il più delle volte era in cotone, un materiale sottile che lasciava traspirare, inumidito per l’occasione al fine di creare vapore ed ottenere un miglior risultato. Una piccola caldaia a ghisa fungeva da ferro da stiro, con all’interno la carbonella (“La carvnedd“) che manteneva l’arnese caldo. Se la quantità di biancheria da stirare era elevata, al fine di evitare il raffreddamento della carbonella lo strumento veniva agitato per riavvivare il fuoco al suo interno. Altre volte si usava un pezzo sottile di tavola per ventilare il fuoco, dopo aver aperto lo sportellino della piccola caldaia.
La biancheria pulita e stirata, opportunamente piegata, veniva posta nella destinazione assegnata: le lenzuola e l’intimo nel comò (“Iund o c’maun“), mentre i pantaloni, le gonne ed i vestiti in generale nel guardaroba (“‘U uardarreb“).