Il rituale della preparazione della salsa di pomodoro ha da sempre interessato la popolazione materana, storicamente molto legata all’agricoltura, nel periodo che corrisponde alla fine dell’estate (fino a metà settembre). Questa usanza interessava tutte le famiglie dei vicinati dei Sassi che, in questa occasione, provvedevano a crearsi la riserva per tutto l’anno. Molto spesso per indicare la preparazione della salsa si usava, e si usa ancora oggi, dire “Fare le bottiglie“, in dialetto “Fè ‘u bttuglij“. Produrre la salsa consentiva alle famiglie di risparmiare e di avere sempre un prodotto nostrano, quindi più saporito, da usare nei pasti di ogni giorno, soprattutto con la pasta.
La procedura di preparazione della salsa è molto laboriosa e richiede molti arnesi, in passato in alcuni casi richiesti in fitto o in prestito. Il procedimento di preparazione della salsa, “La sols“, inizia in realtà molti mesi prima con la coltivazione dei pomodori e la successiva raccolta, legata molto spesso alle condizioni climatiche ed alle precipitazioni.
La Piantagione
Quando la temperatura iniziava ad essere più mite, una volta passato l’inverno, era il momento giusto per coltivare la piantagione. Generalmente la coltivazione dei pomodori avveniva negli orti (“L’urt“) più piccoli, oppure nelle estensioni dei terreni più grandi, appartenenti ai proprietari terrieri, in dialetto “Pat’rnòl“, solitamente nei pressi di corsi d’acqua che ne favorissero l’approvigionamento idrico.
La prima fase della lavorazione della piantagione prevedeva l’aratura del terreno in compagnia del fedele collaboratore dell’agricoltore: il mulo (“Aratìr cu mjl“). L’aratura determinava la frantumazione delle zolle di terra (“Francjzzall“) e la generazione di solchi (“D’ sicl“). Il contadino effettuava un’ulteriore giro nel campo per eliminare erbacce e pietre al fine di lasciare alla pianta lo spazio idoneo per la crescita.
Dopo l’aratura si procedeva con la seconda fase: la semina. In corrispondenza del solco i contadini affondavano nel terreno con la zappa (“Ch la zopp“), generando un altro fossato (“Feggij“) in cui riporre il seme, “La s’mment“, o la piantina, “La chiantjm“, ricoperta successivamente con lo stesso terreno. Al fine di favorire il corretto sviluppo delle piantine, queste venivano posizionate a cira 50/70 cm l’una dall’altra. Gli steli venivano spesso legati ad un tutore, il più delle volte una canna, per mantenerli ritti durante la crescita e per evitare che venissero danneggiati dal vento.
Ultimata in giornata la semina dei campi occorreva innaffiare le piante con dell’acqua, girando per la piantagione spesso con un vecchio secchio (solitamente in rame), “Annacquè cu succhij d rèm“. L’acqua veniva prelevata il più delle volte da un pozzo di acqua sorgiva (“D’ ocqu sorgìv“) o di raccolta delle acque piovane. La superficie del pozzo era ricoperta da un masso o una lamiera al fine di evitare spiacevoli incidenti. L’innaffiatura veniva eseguita al tramontare del sole e per più giorni consecutivi dopo la semina, per dare la spinta giusta alla crescita della piantina.
La semina si differenzia a seconda della tipologia di pomodoro che veniva piantato; più diffusi nel materano i pomodori tondeggianti, “Pmdaur tin“, maggiormente utilizzati per la salsa. Tra le altre tipologie di pomodori troviamo quelli allungati, denominati “San Marzano” (“San Marzèn“), utilizzati per farne i pelati o a pezzettini, oppure le ciliegine (“Vrnl“), i cui rami venivano intrecciati ed appesi con i chiodi alle volte ad arco nelle case e nelle cantine (chiamati “Lamioni“, in dialetto “Lamiaun“) dei Sassi o nelle stalle, per poi essere utilizzati in inverno.
La crescita delle piante era costantemente monitorata dall’agricoltore; quest’ultimo rimuoveva le erbacce, somministrava altra acqua ed evitava il diffondersi sulle piante dei parassiti. In quest’ultimo caso si faceva uso dell’anticrittogamico, “La mdcjn du piont“, diluito e somministrato a dosi, oppure i fertilizzanti naturali, ovvero il letame degli animali da allevamento. Solo in tempi più moderni si è diffuso l’uso dei fertilizzanti chimici (il concime, ” ‘U chncjm“). Tutte le fasi che riguardavano la piantagione erano soggette (e lo sono ancora oggi) oltre che al lavoro dell’uomo anche alle condizioni atmosferiche, ci si affidava quindi al buon Dio affinchè potesse far piovere con cadenza periodica ed in modo non dannoso per le piante (grandine o pioggia troppo fitta).
La piantagione non avveniva sempre nello stesso terreno, spesso si alternavano le zone coltivate al fine di aumentarne la redditività garantendo periodicamente un periodo di riposo; durante quest’ultimo si lasciava il terreno incolto (“Mascijs“), l’erba secca diventava utile al foraggiamento degli animali da lavoro quali muli, cavalli e asini. Si adottavano metodologie di coltivazione diverse anche a seconda del grado di umidità; nelle zone troppo umide si preferiva diradare la piantagione del pomodoro con cadenza annuale in quanto la probabilità che si sviluppassero parassiti (i quali danneggiavano il raccolto bucandolo) era alta. Il raccolto che presentava profonde spaccature (“Spacchèt“) indicava la non regolarità nell’apporto idrico alla pianta (in caso di siccità o di periodo con forti temporali).
Già dai primi di luglio il pomodoro, di colore verde chiaro, si affacciava alla pianta dando la possibilità di fare previsioni sulla sua grandezza e, in generale, sulla quantità e qualità del raccolto. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto i pomodori raggiungevano la dimensione massima. Si raccoglieva quindi qualche paniere per assaggiarli in insalata (“Pmmdaur cjrret“).
La raccolta dei pomodori
La raccolta dei pomodori avveniva mediamente intorno alla metà di agosto, partendo dalla zona del terreno che presentava il raccolto più maturo (di colore rosso), solitamente l’area maggiormente esposta al sole (“A cera a saul“). Questa operazione interessava l’intera famiglia, con la collaborazione di parenti, compari ed amici. Ci si muniva di tutto l’occorrente: i panari in cui veniva riposto del pane avvolto in tovagliette a fagotto (in dialetto “Mappjn“, solitamente con fantasie a quadri), la cesta, le casse, diverse bottiglie di vino, il “Cucumo” (ovvero un’anfora contenente l’acqua) e, se vi era un pozzo di acqua sorgiva nelle vicinanze, un secchio con la fune. Il viaggio per la campagna cominciava al mattino, prestissimo, su di un traino (“ ‘U train“) legato al miglior amico del contadino, ovvero il mulo (” ‘U mjl“). La partenza nelle prime ore della giornata consentiva ai contadini di poter lavorare nelle ore più fresche della giornata. Giunti in campagna (i materani usavano indicarla come “fuori“, in dialetto “Fair“) ci si disponeva in riga e si procedeva con la prima raccolta, secondo un ritmo cadenzato si raccoglievano separatamente, in cesti diversi, i pomodori più rossi, cioè più maturi, e quelli meno maturi (“Cjrrèt“). Nel campo erano sparse diverse casse di legno in cui venivano svuotate le ceste, una volta riempite. Le casse, quando a loro volta si riempivano (arrivando ad un peso di 30 Kg circa), venivano posizionate vicino il traino.
Intorno alle 9 tutti i lavoratori, compresi i bambini, si riunivano nei pressi del casolare o sotto un albero per consumare la colazione (“Caziaun“). Ognuno slegava il proprio fagotto e consumava il proprio pasto, solitamente un pezzo di pane; se questo si presentava indurito, veniva ammorbidito con dell’acqua. Si procedeva quindi con il tagliare da un grosso pezzo di pane solo una fetta (“N’ strafaggiau d pèn“) su cui si spremevano i pomodori freschi, appena raccolti. Molto spesso la fetta di pane veniva completata con dell’olio (“Iughj“) e origano (“Arjn“), mentre il pasto terminava con la frutta, ad esempio meloni (“M’laun d pèn“), angurie (“M’laun d’ocqu“), caroselli (“Carsjd“), fagiolini (“Pjpjdunt“) e girasole (“Gjrasaul“). Dopo la colazione ciascuno ritornava al proprio posto per proseguire la raccolta.
Tra le 13 e le 14 si pranzava, accompagnando con del formaggio e qualche bicchiere di vino i cibi già utilizzati per la colazione. La raccolta proseguiva sotto il sole cocente, gli uomini si proteggevano indossando una canottiera (“Canottiar“) ed un cappello di cotone (“ ‘U cuappjd d c’taun“); le donne, invece, indossavano un fazzoletto in testa (“Facjlèt n’ghèp“) e, per evitare le punture di zanzare (“Zmrèd“) e moscerini (“Mscucchij“) sulle gambe, le calze in cotone (” ‘U cazjt d c’taun“) che scorgevano da sotto la lunga gonna. Alla fine dell’estenuante giornata lavorativa le casse venivano depositate sul carro, pronte per essere trasportate a casa e successivamente divise tra i parenti o coloro che avevano partecipato alla raccolta.
In caso di raccolto abbondante c’era anche margine di vendita. Il mattino successivo il carretto girava per le strade dei Sassi, le donne si avvicinavano per constatare la qualità dei pomodori ed il relativo prezzo. Prima dell’acquisto, le casse venivano pesate con la bilancia (in materano “La v’lonz“). Per una famiglia con in media 5 persone si compravano dai 5 ai 6 quintali di pomodoro.
La raccolta avveniva in più riprese, a seconda del diverso grado di maturazione dei pomodori; si aspettava, quindi, che questi diventassero di colore rosso, mentre se presentavano un colore verde bisognava aspettare ancora. Verso la metà di settembre rimanevano pochi pomodori attaccati alla pianta, solitamente di un colore tra il giallo e l’arancione. Questi venivano raccolti con i rami o i fusti e venivano intrecciati intorno ad uno spago (“La sart du pmdaur“) e successivamente appesi nelle cantine o nelle stalle, infine li si utilizzava in inverno (“Pmdaur vrnjl“).
La preparazione per la salsa
Una volta svuotate le casse nei pressi dell’abitazione, si procedeva nel distendere i pomodori su dei teli per poterli visionare singolarmente e selezionare. Si separavano quelli maturi ed interi da quelli spaccati e troppo maturi (“Pmdaur scafèt“) o non ancora maturi (“Cjrrèt“). Venivano strappati i peduncoli (in dialetto ” ‘U pdcjn“) e si preparavano gli utensili che poi sarebbero serviti il giorno seguente: un tavolinetto (“La bffètt“), il tavoliere (“ ‘U tvljr“), la macchina per la salsa (“La machjnèt d la sols“), l’imbuto (” ‘U mjtjd“), il cucchiaio di legno (“La chicchièr“), le tovagliette (” ‘U mappjn“), il tino per la salsa (“La tjn p la sols“), il tino per scaldare i pomodori, il tino per lavare i pomodori, il cucchiaio traforato per scolare i pomodori bolliti, le bottiglie (solitamente da un litro) lavate (” ‘U bttugghj d ‘na lutr“), bottiglie di birra grandi dette “Da trequarti” (in materano “Da trequort“) o da “Un quarto” (“Na quort“), il basilico (” ‘U masncàl“), sale (“ ‘U sèl“), sacchi di tela (” ‘U soch“), i tappi di sughero (” ‘U fltjr“), il martello (” ‘U martjdd“), lo spago (“ ‘U spegh“), il trepiedi (“ ‘U treppjt“), della legna (” ‘U lian“), il tino per bollire la salsa (“La tjn p farv la sols“) ed infine un secchio per i rifiuti (“ ‘U secchij p la mnnazz“).
Come è facile immaginare dopo aver letto la lunga lista di utensili necessari, il processo di preparazione della salsa era molto complicato e necessitava dell’aiuto di numerosi collaboratori.
La salsa
La preparazione della salsa aveva inizio al mattimo molto presto, quando il cielo era ancora buio. Il luogo in cui questo processo aveva luogo, molto spesso il vicinato (” ‘O vjcjnonz“) dei Sassi, veniva illuminato da luci interne alle abitazioni o lampadine con prolunghe adagiate su delle forcelle che servivano per stendere la biancheria. Fino a quando la città non venne dotata di acqua potabile, questa veniva prelevata dal fontanino (in dialetto “Do fnanjn“) più vicino e trasportata tramite delle brocche (“Rjzzaul“). A poco a poco tutti, familiari e non, raggiungevano il punto d’incontro dando vita al tipico chiacchiericcio (“ ‘U rjcjrijj“) che svegliava gli altri abitanti del vicinato. Ciascuno aveva un ruolo ed un compito ben preciso da eseguire. Si procedeva con il fissare la macchinetta per la salsa ad un tavolo, oltre ad un tino per la raccolta.
Per prima cosa venivano lavati i pomodori, per primi quelli tondi (“Tinn“) e spaccati oppure troppo maturi (“Scaljfèt“); successivamente, una volta bolliti, questi venivano prelevati con un cucchiaio traforato, “La schjmaràl“, e posti in una pentola. A questo punto entrava in gioco la macchinetta per la salsa che accoglieva i pomodori, prelevati tramite un mestolo (“ ‘U chppjn“), mediante un imbuto (“Iund o mtidd“). Una manovella, solitamente azionata da un maschio, permetteva al macchinario di funzionare, mentre un’altra persona aiutava, con un cucchiaio di legno, i pomodori ad entrare nell’imbuto. Il succo di pomodoro fuoriusciva dalla macchinetta e scendeva così nel tino, posto al di sotto, mentre gli scarti (” ‘U scuffi“), che derivavano da questo processo, fuoriuscivano da un’altro foro e quindi gettati tra i rifiuti. Il primo succo, quello cioè prodotto con i pomodori meno di qualità, veniva contrassegnato e consumato per primo. Successivamente il macchinario e gli utensili venivano lavati e si procedeva con l’utilizzo dei restanti pomodori, precedentemente selezionati.
La preparazione della salsa era accompagnata dai commenti sulla qualità, stabilita in base a come era denso il succo o a come era asciutto lo scarto. Tutto il procedimento durava diverse ore e, quando il sole si faceva alto ed i suoi raggi battevano forte, si montava un grande telo, sollevato da forcelle, per fare ombra sui lavoratori.
La preparazione della salsa poteva essere soggetta a diverse tecniche, una di queste prevedeva l’utilizzo della cosiddetta “medicina“, ovvero l’acido acetilsalicilico che consentiva un risparmio di tempo provocando tuttavia notevoli danni allo stomaco, tra cui gastrite e, alle volte, ulcera. Un’altra modalità, molto più tradizionale, consisteva nell’imbottigliare il succo caldo per poi lasciarlo riposare per un giorno sotto le coperte. Il procedimento più frequente e laborioso era sicuramente quello della bollitura (“Farv ‘u bjttuglij“). Al termine della procedura tutti gli utensili venivano lavati e chi aveva partecipato, in un modo o nell’altro, banchettava con qualche melone (“Mlaun“) o anguria (” ‘U mlaun d’ocqu“).
Si lasciava raffreddare il succo, mescolandolo frequentemente, prima di imbottigliarlo usando il mestolo (” ‘U chppjn“) e l’imbuto (“ ‘U mtjd“), inserendo anche un pugno di sale (” ‘U sèl“) e del basilico (“Masncàl“). Al fine di evitare la formazione di bolle d’aria, di tanto in tanto si batteva il fondo della bottiglia su di uno spessore fatto di tela. Le bottiglie venivano tutte riempite e chiuse con un tappo di sughero, nei decenni successivi sostituito da quello in metallo. La chiusura del tappo di sughero avveniva colpendolo con un martello in maniera lieve. Infine, una volta che il tappo era stato per metà inserito, questo veniva legato con dello spago a croce ai lati della bottiglia. I tappi di sughero pian piano lasciarono spazio a quelli in rame, utilizzati nell’imbottigliamento delle gassose (in dialetto ” ‘U gazzaus“), aranciate (“Arancièt“), spuma (“Spjm“) e birra (“Burr“); in questo caso la chiusura del tappo avveniva tramite un apposito macchinario e con l’aiuto del solito martello.
Il passaggio successivo consisteva nella bollitura delle bottiglie. Queste venivano inserite in un fusto di rame (“Callèr“) o in un tino (” ‘Na tjn“); tra le bottiglie venivano posti dei sacchi di tela per evitare che durante il processo, a causa delle vibrazioni, le bottiglie si rompessero. Il coperchio del tino (“Cpjrchij“) era solitamente di tavola e consentiva una bollitura più veloce. Nonostante le accortezze, data la lunga durata della bollitura (solitamente 4 o 5 ore), era facile ascoltare il rumore dello scoppio delle bottiglie; solo l’indomani, di solito in mattinata (quando la caldaia si era ormai raffreddata), queste venivano estratte e si procedeva con la verifica di quante bottiglie erano rimaste intatte e quante si erano rotte. Le bottiglie erano pronte per essere trasportate nelle varie case dei Sassi, chiamati “Lamioni“, per essere conservate su apposite mensole.
A questa insolita festa di comunità, quale era la preparazione della salsa, partecipavano anche i più piccoli, nonostante non potessero essere molto d’aiuto risultando quasi di intralcio alle operazioni di preparazione, trasporto e smaltimento dei rifiuti. Solitamente la preparazione della salsa coincideva con la prima settimana di settembre; in tempi più recenti le date coincidevano con la famosa Fiera del Levante che si svolge ogni anno a Bari. Proprio in questi giorni la RAI, generalmente, dava inizio alle trasmissioni televisive per i bambini alle ore 17. Per questo motivo, nella rara eventualità che qualcuno possedesse una televisione (ovviamente in bianco e nero), per calmare i bambini questa veniva collocata nei paraggi per intrattenerli. Una scena tipica dell’epoca raggruppava gli adulti, intenti alla preparazione della salsa, e nelle immediate vicinanze gruppi di bambini seduti per terra, solitamente con una fetta di pane (“Strafagghiaun d pèn“) condito con olio e zucchero, a volte con limone e zucchero.
I pelati
I pelati, in dialetto ” ‘U plèt“, venivano prodotti successivamente alla salsa, in quantità sicuramente inferiore. Per i pelati si faceva uso dei pomodori più allungati, i cosiddetti “San marzano“. Questi, dopo la bollitura, venivano spellati, puliti dei loro semi e depositati in un contenitore di terracotta, chiamato “Schjmaràl“, successivamente sostituito dal boccaccio, “Buccoccij“. L’operazione era alquanto fastidiosa perchè si svolgeva quando i pomodori erano bollenti, provocavano quindi notevoli scottature sulle mani.
Una volta spellati e ripuliti i pomodori venivano inseriti, con del sale e del basilico, nei boccacci; questi venivano sbattuti su dei teli per compattarne il contenuto. La chiusura dei boccacci avveniva con dei tappi in vetro azionati da un congegno meccanico ed una guarnizione in gomma. I boccacci seguivano, quindi, il processo di bollitura come per la salsa.
I pezzettini
Un’altra modalità di lavorazione dei pomodori consisteva nei cosiddetti “pezzettini“, in materano ” ‘U pzztjn“. Anche in questo caso la varietà utilizzata era “San marzano“, cioè pomodori più allungati. Questi, dopo aver subito la rimozione dei peduncoli ed essere stati lavati, venivano tagliati a spicchi su un tavoliere. Esaurita la quantità, si inserivano i pezzettini nei boccacci, questi venivano sbattuti su di un telo ed in seguito si aggiungeva sale e basilico. Ultimo passaggio, come negli altri casi, era la bollitura, successivamente i boccacci erano pronti per essere conservati ed utilizzati durante l’inverno.
I pomodori secchi
Dopo un’attenta fase di selezione, i pomodori venivano spaccati e lasciati essiccare al sole per qualche mese. Successivamente, una volta che divenivano molto asciutti, dopo una fase di bollitura si procedeva con la conservazione in piatti, riposti sulla credenza, o con l’olio all’interno di boccacci.